I dipinti che si dispiegano davanti suggeriscono apparentemente rimandi e referenti di natura: paesaggi, fiori, tronchi, l'Oltrepò, greti, argini del Ticino. Eppure, l'uno per l'altro, quasi in una relazione di unità, non ci si presentano nelle modalità del tema pittorico nel senso di un taglio di narrazione; non nelle variazioni del motivo nel senso di rito di natura. Hanno quell'avvolgimento unico di spazio e tempo, di forma e senso, di movimento libero del diario e immagine rigorosa della pittura.
Certo la pittrice sembra nominare l'ora, la stagione, le cose, la vita misteriosa di un fiore, e quasi quella pena affliggente di grigio, di assenza, nell'immagine di un argine del fiume. Ma tutto ciò prende forma entro quella misura interiore che stralcia dall'informe naturale la percezione e le figure della coscienza, la dimensione temporale, emotiva del dipinto. Potremmo leggere allora nei suoi titoli gli indugi illusivi e allusivi, ma anche un'ombra di tempo, il suono interno, e perfino una cifra disperante del simbolo e dell'altrove.
In un angolo dello studio ci sono due fotografie che ritraggono Sandra Tenconi con Graham Sutherland. Hanno l'evidenza significativa di un incontro: come il lampo di un'emozione finisce per riflettersi su tutta un'opera di pittura. Quest'incontro conferma l'istanza, la direzione di una pittura che tende, nei suoi incerti confini, a qualcosa di nordico, come a quell'interiorità raffinata, o lievemente allucinata di un volto.
Apparentemente c'è l'attrito e la declinazione di un genere figurativo (il paesaggio) che è disarmato nello scatto interiore, nella ricarica di un colore (che non esiste in natura), o in una luce radente, o nel battito silenzioso del desiderio, dell'assenza. È ciò che dà quel connotato di specchio interiore a una nuvola di Turner, a un paesaggio di Constable.
Anche in questa pittura di Sandra Tenconi, i blu, i verdi, gli ocra, i grigi sono liberati dall'imitazione. Forse sopravvivono le luci delle ultime malinconie. Certo si illuminano nelle soste, nelle dimenticanze, nell'oblio, nelle nuove destinazioni. Ecco perché, in una presentazione, Roberto Tassi, ha visto in questi quadri di natura, un viaggio nell'autoritratto, quasi che la pittura vada a rifugiarsi nel luogo e nella perdutezza dell'io.
Stefano Crespi, Sandra Tenconi. Il luogo interiore, 1996
Stupisce, o forse non stupisce ma va in ogni caso sottolineato, come all'esordio Sandra Tenconi si presenti in particolar modo come una disegnatrice. Il tratto e vigoroso nel presentare le figure umane, spesso con un taglio novecentista (il mezzobusto praticato dagli artisti dell'orbita Sarfatti) e intenzione grafica (viene talvolta in mente Boccioni incisore: non è poco), alternando l'uso della matita conte a quello del carboncino, nel primo caso tornando a insistere sui segni per allargare le zone di scuro. Ci si trova dunque di fronte alla certificazione di una bravura che sarà dovuta sia al talento naturale sia alla pratica accademica, se è vero che il respiro è cosi marcatamente lombardo.
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Parrebbe di vedere una frequentazione dell'opera di Ennio Morlotti, ma le differenze sono più delle somiglianze. Laddove il pittore di Lecco usava borchie di colore ben rilevate che andavano a costituire quasi una pelle rettile sulla tela, la nostra pittrice frammenta la spatolata, la lavora e la tormenta, arrivando a delle finezze altrimenti non raggiungibili. La sua, si potrebbe dire, è una via femminile a fianco di quella strada lombarda raccontata dai nomi di Franco Francese, Alfredo Chighine e Morlotti stesso: per questa diverge ed è unica (di Francese viene poi anche alla mente la capacità di disegno).
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La "natura morta di fiori" è il trabocchetto del dilettante perché sembra garantire piacevolezza per il suo solo soggetto, con risultati pessimi..
Il professionista dovrà stare bene attento, soprattutto oggi, a concedersi a questa tema, che facilmente risulta stucchevole. Sandra Tenconi supera l'ostacolo di slancio, grazie a un gusto raffinato, alla Bonnard, a una grande padronanza tecnica (i suoi pastelli si trasformano all'occorrenza in gessetti), a una grande intelligenza compositiva.
Gabriele Dadati, in "Ore Piccole", aprile-luglio 2009
[ ... ] a Milano. Qui infatti, Sandra ha studiato, allieva di Carpi e Cantatore all'Accademia di Brera, qui mantiene i contatti con pittori e scultori tra i più vivi della sua generazione ed in genere con l'ambiente culturale legato alla sua formazione d'artista. Che è quindi di tipica matrice lombarda, nella linea di un naturalismo non privo di richiami alla condizione esistenziale ed agli impegni sociali: per stare più vicino a noi, da Morlotti a Banchieri.
In quest'area, che ha dato negli anni sessanta in particolare più di un'occasione ai critici di formulare ipotesi di nuova figurazione e di nuovo racconto, è sintomatico il tono dimesso, senza sprechi di parole o gesti eloquenti pur nella preziosità della stesura cromatica. L'attenzione è sempre rivolta all'interno delle cose, la realtà desunta dal suo involucro apparente.
Anche i soggetti scelti da Sandra, i fiori, si collocano nella tematica consueta di questa tendenza: ma questo insistere per anni, fino a svuotare i suoi modelli dei contenuti più facilmente apprezzabili dal pubblico, schiude un percorso segreto entro quell'inesausto sfiorire e rifiorire di rose e ortensie, trepidanti, carnali, attraversate da ombre di paesaggi.
Sono forse il segno della difficoltà di esistere, di un malessere che si rinchiude sopra di noi proprio in vista di trasognati eldoradi. Questo male di vivere, questo horror vacui, lo trovo più presente e realizzato nei piccoli studi a matita, radici trascinate dal fiume ed abbandonate sui greti, groviglio di segni ai margini dello spazio vuoto del foglio. Cézanne diceva che il disegno è il bianco. Oppure nei serti di rose, come in una sbiadita "tapisserie" di settecentesca finzione [ ... ].
Alberto Ghinzani, 1987
Aggredisce la natura. Cercando di captarne sensazioni ed umori ("In ascolto, la notte ..."). La trascrizione, però, avviene - nota la Bossaglia nell'introduzione al catalogo - affondando "l'immagine nei luoghi misteriosi ove essa prende forma". Da qui, la scelta di colori "spenti", di "gamme afone" che tendono a rendere semplice un mondo che, forse, semplice non è. Ecco che gli acrilici sono dominati dal verde ("Ombra verde ombra, verde-umida e viva. / Per dove negli anni delira / di vividi anni" - Vittorio Sereni).
All'inizio, Sandra Tenconi si è misurata con la nuova figurazione. In un secondo momento, ha preferito meditare piuttosto che gridare i suoi soggetti "non analizzati con freddezza" ma "immersi nel sottile vapore della memoria affettuosa".
Sebastiano Grasso, 1980
L'ordine dell'immaginazione non è l'ordine della memoria. Eppure, in questi pastelli la consueta cifra stilistica di Sandra Tenconi - un segno puntiglioso stagliato su gamme di colore ora appena differenziali ora di smaltante complementarità - si abbandona alla solare ansia di una Provenza svelata da un viaggio, rivisitata in arcipelaghi di paesaggi in cui lo spazio include la dimensione del ricordo.
Terre rosse, spaccature ocra di rocce, forre, profili cremisi di monti; cipressi verticali, capigliature cupe di pinastri dilatate dal vento e, al centro, plaghe luminose di giallo e di rosso (campi di senape, papaveri?), che come un grembo attirano un universo arboreo e minerale intatto. C'è il mistero della luce neonata e gualcita dall'ombra, ma il mistero è festoso, l'ombra di una ricchezza.
Quel vortice centrale è un percorso al nocciolo delle cose, dove memoria e immaginazione si fondono nell'attimo felice della scoperta. Il ritegno di una pittrice nordica e l'emozione mediterranea: La Provenza, paese del sud per un lombardo, lo è ancor più per la cultrice di verdi umidi, ortensie gentili, grovigli asciutti di tronchi.
Maria Antonietta Grignani, Dimensioni del ricordo, 1991
[...] Non c'è serenità olimpica nel binomio di natura e elemento umano, perché lo stesso impulso morale che infligge certi grigi desolati, poniamo all'argine di un fiume, incide senza pietà gli autoritratti, che portano in sé qualcosa di moderatamente nordico, dal grande Rembrandt al nostro Franco Francese, per la figuratività tormentata da un impulso quasi espressionistico, cioè da una soggettività critica contenuta, schiva e perciò raggelata.
Quanto si vede è una resa geologica del ritratto, che frana, decade e si perde in metamorfosi; oppure chiude nella tela, di suo silente, echi per l'udito, convulsioni non esibite ma tenute sotto vetro, di linee comuni tra i segni che il tempo e l'angoscia incidono sull'animale psicologico e la bestia occultata in tutti gli altri grumi mineralizzati del paesaggio: tronco abbandonato; roccolo; gente su certi scogli quasi sardi dell'Elba: come su dossi purgatoriali; cascate di marmo bianchissimo delle Alpi Apuane, che nelle tele ultime ci balzano incontro nella densità materica del bianco; acqua che va a capofitto giù dai ghiacciai.
Maria Antonietta Grignani, Vedere e ricevere, 2007
Riflettendo a suo tempo sui quadri di Paesaggi umani avevo osservato che iris, ortensie, sassifraghe, rose, mai sono soggetti in sé, ma sempre collocati in «una specie di utero di luce o di ombra, cui (…) conferiscono inquietudine la forra, il calanco, il tronco abbandonato e mineralizzato dal fiume».
Dal giardino dell’infanzia a Varese vengono i prototipi delle ortensie che per lunghi anni visitano disegni, pastelli e olii di Sandra, così come dalla zona viene il Monte San Martino. Ora l’esperienza geografica si è di molto allargata, senza negare le origini: tronchi levigati e abbandonati dal fiume Ticino, roccoli, forre e costoni, forme cave appoggiate su grembi accoglienti stanno alla base, tecnica e di sensibilità, della nuova presa su scoscendimenti mediterranei o nordamericani. Il vortice luminoso, che un tempo prediligeva il centro oppure i margini della tele, negli ultimi anni si è fatto fonte remota di luce dorata, a rendere la vita segreta e un poco inquietante della materia.
Se ripensiamo alle varie fasi della produzione, si direbbe che nei tempi recenti montagne e ortensie siano state la guida per un rasserenamento delle nuances, aiutate dal flou di ciò che resta dei fiori globosi separati dal loro stelo e dal marmo bianco abbagliante delle nevi sui profili minerali, mentre le radianze di luce che si effondono dal cielo pacificano le opposizioni di chiaro e di scuro, l’emergere e lo sprofondare dei vari piani della visione.
Forse è fatale che la maturità piena di un artista – e Turner lo insegna in modo sublime – passi attraverso due principi diversi ma non contraddittori: la fedeltà a se stesso (alle proprie tematiche, alla propria tecnica) e la semplificazione tesa all’essenziale, a quell’impulso di dedizione alla limpidezza che gli anni della sintesi sanno portare.
Maria Antonietta Grignani, Radianze di ortensie e rocce, 2012
[...] Lo schiarirsi del giorno, al di là del finestrino, con i primi tagli di luce acerba sui laidi caseggiati della periferia, lo sgocciolìo dei tralicci e dei pali del telegrafo al tepore del nuovo sole, gli scheletri delle gru, l'immagine di una deserta attesa sulle panchine delle stazioni, e, improvvisa, la volta del cielo curva, su un paesaggio di alberi spogli o scarruffati dal vento, di nevi sporche, di acque cupe. Una "tematica" da fotoreporter, verrebbe da dire; o da artista sollecito a fissare sulla retina o sul taccuino da tasca la suggestione fugace dell'istante, trattenendola in sé quel tanto che basti a spremerne una goccia avara di gioia, e a riorganizzarla in una sintassi formale: ancora un po' esterna, questa, più che suggerita dal fantasma poetico, ancora più appresa che inventata, ma sentita necessaria come un'operazione di ordine; nei momenti meno vigili insidiata da una compiacenza alquanto passiva di decorazione. Il lapis, con i suoi tratti più o meno neri, grassi o sfumati, esaurisce su un registro bassissimo tutta la gamma cromatica: il colore (con l'eccezione, tutt'al più di qualche verde cupo, di qualche giallo fondo) per il momento resta un'esperienza non sappiamo se respinta o temuta, come una luce troppo intensa che sconcerti. Una natura nordica, si pensa. [...]
Dante Isella, Sandra Tenconi, 1960
Sogna, certamente, a colori. È nata a Varese, vive a Pavia, ma conserva in cuore la campagna del Varesotto, dai colori forti, dai segni vibranti, quelli autunnali degli alberi spogli. È sufficiente soffermare lo sguardo sui suoi paesaggi in acrilico per capire che ci si trova di fronte alla ricerca pittorica di una degna erede di Morlotti. Ma non è tutto: Sandra Tenconi unisce alla sensibilità per il paesaggio un rigore compositivo appreso giorno dopo giorno all'Accademia di Brera, con maestri indimenticabili quali Aldo Carpi e Domenico Cantatore. Le hanno trasmesso il gusto prepotente nei confronti della libertà espressiva, una esigenza che la Tenconi difende in ogni suo lavoro.
È una virtuosa del pastello. Trasfigura i colori della natura in modo vivace, ma nel contempo morbido, grazie alla tecnica estremamente dolce. [...] Sandra Tenconi viene dalla tradizione della tavolozza che non obbligatoriamente deve guardare al reale. Il suo paesaggio lombardo ha una tale mutevolezza, nel variegato passaggio delle ore, da condizionare e determinare la variabilità cromatica: la stessa pittrice non può e non riesce a trattenere l'attimo fuggente. Degli artisti lombardi, pensiamo a quelli del secolo scorso come Gola, ha ereditato il rigore che si sposa al romanticismo e riesce a trasfigurare un "reale" che diventa sentimento. Esiste certo un'unità d'Italia, ma non cadiamo nella retorica: è inutile cercare un'identità della fisionomia del paesaggio. La Lombardia, col suo verde, i suoi alberi, i suoi colori a volte grevi, viene vissuta dalla Tenconi con una visione malinconica ma anche con una oggettività che rendono a volte struggente un mondo fatto semplicemente di prati, di roccia.
Certo, è fedele alla propria terra, ma ama andare in giro per il mondo, con la cartella da disegno sotto il braccio. Durante un viaggio in Provenza, per esempio, ha eseguito una serie di pastelli bellissimi, quasi informali. Questa inviata speciale nel paesaggio, fatto di colori e segni, ama penetrare la natura con mano e cuore, e ne ricava anche soffusi palpiti di sofferenza [...]
Paolo Levi, Va dove la porta il paesaggio, 1995